Dichiarazione di Alexander Marius Jacob davanti ai giudici – 8 marzo 1905
Signori, adesso sapete chi sono: un ribelle che vive del ricavato dei suoi furti. Di più. Ho incendiato diversi alberghi e difeso la mia libertà contro l’aggressione degli agenti del potere. Ho messo a nudo tutta la mia esistenza di lotta e la sottometto come un problema alle vostre intelligenze. Non riconoscendo a nessuno il diritto di giudicarmi, non imploro né perdono né indulgenza. Non sollecito ciò che odio e che disprezzo. Siete i più forti, disponete di me come meglio credete. Ma prima di separarci, lasciatemi dire l’ultima parola…
Avete chiamato un uomo: ladro e bandito, applicate contro di lui i rigori della legge e vi domandate se poteva essere differentemente. Avete mai visto un ricco farsi rapinatore? Non ne ho mai conosciuti. Io, che non sono né ricco né proprietario, non avevo che queste braccia e un cervello per assicurare la mia conservazione, per cui ho dovuto comportarmi diversamente. La società non mi accordava che tre mezzi di esistenza: il lavoro, mendicità e il furto. Il lavoro, al contrario di ripugnarmi, mi piace. L’uomo non può fare a meno di lavorare: i suoi muscoli, il suo cervello, possiede un insieme di energie che deve smaltire. Ciò che mi ripugnava era di sudare sangue e acqua per un salario, cioè di creare ricchezze dalle quali sarei stato sfruttato. In una parola mi ripugnava di consegnarmi alla prostituzione del lavoro. La mendicità è l’avvilimento, la negazione di ogni dignità. Ogni uomo ha il diritto di godere della vita. “Il diritto a vivere non si mendica, si prende”.
Il furto è la restituzione, la ripresa di possesso. Piuttosto di essere chiuso in un’officina come in una prigione, piuttosto di mendicare ciò a cui avevo diritto, ho preferito insorgere e combattere faccia a faccia i miei nemici, facendo la guerra ai ricchi e attaccando i loro beni. Comprendo che avreste preferito che fossi sottomesso alle vostre leggi, che operaio docile avessi creato ricchezze in cambio di un salario miserabile. e che, il corpo sfruttato e il cervello abbrutito, mi fossi lasciato crepare all’angolo di una strada. In quel caso non mi avreste chiamato “bandito cinico” ma “onesto operaio”. Adulandomi mi avreste dato la medaglia al lavoro. I preti promettono un paradiso ai loro fedeli, voi siete meno astratti, promettete loro un pezzo di carta.
Vi ringrazio molto di tanta bontà, di tanta gratitudine. Signori! Preferisco essere un cinico cosciente dei suoi diritti che un automa, una cariatide.
Dal momento in cui ebbi possesso della mia coscienza mi sono dato al furto senza alcuno scrupolo. Non accetto la vostra pretesa morale che impone il rispetto della proprietà come una virtù, quando i peggiori ladri sono i proprietari stessi.
Ritenetevi fortunati che questo pregiudizio ha preso forza nel popolo, in quanto è proprio esso il vostro miglior gendarme. Conoscendo l’impotenza della legge, o per meglio dire, della forza, ne avete fatto il più solido dei vostri protettori. Ma state accorti, ogni cosa finisce. Tutto ciò che è costruito dalla forza e dall’astuzia, l’astuzia e la forza possono demolirlo.
Il popolo si evolve continuamente. Istruiti in queste verità, coscienti dei loro diritti, tutti i morti di fame, in una parola tutte le vostre vittime, si armeranno di un “piede di porco” assalendo le vostre case per riprendere le ricchezze che hanno creato e che voi avete rubato. Riflettendo bene, preferiranno correre ogni rischio invece di ingrassarvi gemendo nella miseria. La prigione…i lavori fozati, la prigione…non sono prospettive troppo paurose di fronte ad un’intera vita di abbruttimento, piena di ogni tipo di sofferenze. Il ragazzo che lotta per un pezzo di pane nelle viscere della terra senza mai vedere brillare il sole, può morire da un momento all’altro vittima di un’esplosione di grisou. Il lavoratore che lavora sui tetti, può cadere e ridursi in briciole. Il marinaio conosce il giorno della sua partenza, ignora quando farà ritorno. Numerosi altri operai contraggono malattie fatali nell’esercizio del loro mestiere, si sfibrano, s’avvelenano, s’uccidono nel creare tutto per voi. Fino ai gendarmi, ai poliziotti, alle guardie del corpo, trovano spesso la morte nella lotta ai vostri nemici.
Chiusi nel vostro egoismo, restate scettici davanti a questa visione, non è vero? Il popolo ha paura, voi dite. Noi lo governiamo con il terrore della repressione; se grida, lo gettiamo in prigione; se brontola, lo deportiamo, se si agita lo ghigliottiniamo. Cattivo calcolo, Signori credetemi. Le pene che infliggete non sono un rimedio contro gli atti della rivolta. La repressione invece di essere un rimedio, un palliativo, non fa altro che aggravare il male.
Le misure coercitive non possono che seminare l’odio e la vendetta. È un ciclo fatale. Del resto, fin da quando avete cominciato a tagliare teste, a popolare le prigioni e i penitenziari, avete forse impedito all’odio di manifestarsi? Rispondete! I fatti dimostrano la vostra impotenza. Per quanto mi riguarda sapevo esattamente che la mia condotta non poteva avere altra conclusione che il penitenziario o la ghigliottina, eppure, come vedete, non è questo che mi ha impedito di agire. Se mi sono dato al furto non è per guadagno o per amore del denaro, ma per una questione di principio, di diritto. Preferisco conservare la mia libertà, la mia indipendenza, la mia dignità di uomo, invece di farmi l’artefice della fortuna del mio padrone. In termini più crudi, senza eufemismi, preferisco essere ladro che essere derubato.
Certo anch’io condanno il fatto che un uomo s’impadronisca violentemente e con l’astuzia del frutto dell’altrui lavoro. Ma è proprio per questo che ho fatto la guerra ai ricchi, ladri dei beni dei poveri. Anch’io sarei felice di vivere in una società dove ogni furto sarebbe impossibile. Non approvo il furto, e l’ho impiegato soltanto come mezzo di rivolta per combattere il più iniquo di tutti i furti: la proprietà individuale.
Per eliminare un effetto, bisogna, preventivamente, distruggere la causa. Se esiste il furto è perché “tutto” appartiene solamente a “qualcuno”. La lotta scomparirà solo quando gli uomini metteranno in comune gioie e pene, lavori e ricchezze, quando tutto apparterrà a tutti.
Anarchico rivoluzionario, ho fatto la mia rivoluzione, L’anarchia verrà!
Alexandre Marius Jacob
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Consiglio il seguente libro:
Jacob Alexandre Marius di Bernard Thomas
Ed. Anarchismo 2a ediz. – pagine 230 – euro 10,50
Postfazione di Alfredo M. Bonanno
Jacob ha svaligiato centinaia di case borghesi, ha ricavato una ricchezza enorme, e l’ha messa a disposizione del movimento anarchico internazionale. Il suo progetto era utopicamente insensato, tendendo ad allargare il numero dei “lavoratori della notte” e quindi a svuotare dall’interno, con questi prelievi coatti, la forza repressiva della classe borghese. Utopie, siamo d’accordo, ma non è qui il punto. Rubare è indispensabile per un rivoluzionario, rubare ai ricchi. È indispensabile perché altrimenti non potrebbe trovare i mezzi per la propria attività rivoluzionaria diretta a sovvertire l’ordine esistente.
Questo non è un libro di avventure, anche se ciò può aver cercato Thomas. È un momento di riflessione, che vogliamo fare? Vogliamo lasciare nelle casseforti dei padroni i loro ninnoli dorati, le loro banconote da 500 euro, una sull’altra, i loro buoni del tesoro al portatore, o vogliamo portarceli via con qualsiasi mezzo? Jacob era un ladro, Bonnot era un rapinatore, che cambia? Lo scopo era il medesimo.
E, poi, l’altro lato della facciata. Non illudiamoci. La vita di un ladro, o di un rapinatore, non è una vita eccitante. È fatta, per il novanta per cento, di lavoro stressante e meticoloso, ore e ore di pedinamenti, di appostamenti, di misurazione di percorsi e di tempi, di addestramento. Poi viene il progetto rivoluzionario. I soldi non sono niente, quello che conta è la speranza in un mondo migliore, la capacità di tornare sempre daccapo senza perdersi d’animo.
Quando, come in questi ultimi anni, la miseria sembra battere alle porte, e lo starnazzare in cortile sembra assordante, non bisogna perdere la forza e la volontà di ricominciare. Ma non sia mai che a impedirci questa capacità di svoltare sia la rassegnazione o la penuria di mezzi.
Questo proprio no.
Tratto da: Edizioni Anarchismo