Vallanzasca Renato-Intervista nel 2004

Vallanzasca parla di lui e degli uomini della sua banda
Rebibbia. 23 ottobre 2004. Braccio G8. H: 15:56

È acceso?
– Sì. Può parlare.
– Cosa vuoi sentire, ragazzo?
– La sua storia, signore… La sua storia.
– Signore. Lo sai quanto tempo era che nessuno mi chiamava così? La mia storia…
– Sì, signore…
– Dunque… da dove cominciamo?
– Cominci dal suo nome.
– Renato Vallanzasca, di professione recluso. Quattro ergastoli e qualcosa
1. Origini.

Vallanzasca Renato, di Osvaldo e Marie ******, nato a Milano, quartiere Comasina, nell’anno di grazia 19**.
Balordo per vocazione.
Vedi, ragazzo, è qualche anno che c’è la teoria che se diventi delinquente è colpa dell’ambiente in cui sei cresciuto, dei tuoi che ti prendevano a sberle da piccolo…
Non diciamo cazzate! C’è chi nasce per fare lo sbirro, chi lo scienziato, chi per fare madre Teresa di Calcutta. Io sono nato ladro.
Con un amico d’infanzia ci facevamo intere scatole di figurine Panini.
Ligera per vocazione.
Pensa che lui è diventato avvocato…
Poi ho cominciato coi “furti su commissione”: le vicine di casa mi “ordinavano” pezzi di ricambio per la stufa, piccoli elettrodomestici… In cambio: castagne e frittelle.
La prima galera, diciamo così, l’ho fatta presto. A otto anni.
Mi era saltato il pallino di liberare gli animali del circo. Le sbarre non le ho mai potute soffrire…
C’era in città il Medini (allora era più famoso persino del Medrano!) e io, che soldi per il biglietto non ne avevo, sgattaiolavo di pomeriggio tra le roulottes a guardare le tigri.
Guarda oggi, guarda domani, mi è presa una pena per quelle povere bestie… Così le ho fatte uscire dalle gabbie e mi sono imboscato a vederle correre sul viale.
Morale della favola: due minuti di gloria e cinque ore di ceffoni (c’era un brigadiere con due mani che parevano badili…)
Mio padre è venuto a prendermi la sera al Beccaria, incazzato come una iena… E a casa mi ha dato il resto.
A quindici anni ero un ladro-studente. Studiavo ragioneria e la sera imparavo il mestiere dalle vecchie glorie del quartiere.
Una volta la madama mi ha aspettato nell’atrio della scuola.
Dovevo fare gli esami di riparazione, e siccome mi stavano dietro da tutta l’estate, mi ero preparato da latitante, a Finale, a casa di un’amichetta col grano che era andata a fare le ferie in Corsica coi genitori.
Arrivo tronfio la mattina del gran giorno, ma invece dell’interrogazione, mi tocca l’interrogatorio in Fatebenefratelli.
Niente esami. E niente diploma.
Pazienza: “Sapevo benissimo che in banca sarei entrato lo stesso. Saltando il bancone”

2. La perdita della verginità.

La verginità l’ho persa nel ’72… No, non quella che pensi te.
Voglio dire il primo colpo serio e il primo gabbio da uomo.
Supermercato Esselunga, via Monte Rosa.
Noi: in quattro, due per macchina. Più un’altra pronta per la fuga dietro via Barberini.
Loro: non sospettavano un cazzo.
Il furgone portavalori si ferma davanti alle nostre auto – avevamo simulato un tamponamento -, noi schizziamo fuori con gli AK-47 in mano. Sembra di essere a Chicago.
Tre minuti dopo le guardie sono in ginocchio, la porta del furgone spalancata e il signor Esselunga alleggerito di 55 milioni.
Nessuna sfiga, nessun inghippo.
A parte la nostra testa di cazzo.
I tizi con cui lavoravo allora non erano proprio delle aquile, per cui ci ritroviamo con l’allarme che parte dieci minuti prima del previsto, la Mini che doveva servire per la fuga chiusa a chiave (se becco chi è stato…) e cinque tra poliziotti e guardie giurate che ci sparano addosso senza neanche intimare l’Alt.
A quel punto spariamo anche noi.
Due raffiche fanno saltare una vetrina. Un colpo di .38 prende uno sbirro in un piede e io riesco appena in tempo a fermare un stronzo dei miei che aveva già tolto la spoletta a una granata e la stava tirando in bocca ai fresconi.
La bomba fa saltare tre macchine parcheggiate e ci copre. Noi, come Nembo Kid, ci cambiamo i vestiti nelle cabine del telefono e scappiamo con una due cavalli che qualche coglione aveva lasciato aperta.
Tre giorni dopo si presenta a casa mia Achille Serra, allora funzionario della Squadra mobile e – per inciso – ragione per cui io sto chiuso qua dentro, e io, mostrandogli il Rolex che avevo al polso, gli faccio: «Commissario, lei è giovane, ne ha ancora di strada da fare prima di incastrarmi. Se riesce a trovare un qualunque indizio contro di me, questo è suo».
Questo mette a soqquadro tutto per due ore, finché non trova nella spazzatura le buste di carta che contenevano le banconote.
Le avevamo strappate in mille pezzi pensando di essere furbi, ma mi sa che lui era più furbo di noi.
« Sarò anche giovane» mi disse «ma come vede l’ho incastrata. Quanto al Rolex, beh, sta meglio dove sta.»
Così, la promozione a vicequestore per lui e quattro anni di carcere duro per me.
Dico duro mica per ridere: il ricordo più bello che ho di quegl’anni sono questi centosettanta punti di sutura che mi vanno dall’avambraccio sinistro alla chiappa destra…

3. Apoteosi. Freddo come l’acciaio, tenero come una caramella mou.

Tutta la mia vita, quella vera intendo, va dall’estate ’76 all’inverno ’77.
Mentre stavo dentro – e glisserei sulle modalità – avevo messo su famiglia. Io e Consuelo, la mia ragazza, avevamo avuto un bambino, Maxim.
Io me ne stavo al gabbio a marcire e lui cresceva.
Aveva quasi quattro anni.
Così decido che è ora di finirla, e mi inietto per sei mesi urina e uova marce. Mi procuro un’epatite e una via di fuga.
Scappo dall’ospedale Bassi nel luglio 1976, e penso di meritarmi una vacanza.
Tiro su moglie e prole e ci facciamo venticinque giorni tra Maratea e Positano. In assoluto i più belli della mia vita.
Torniamo in città per un po’, con l’idea di farci un altro paio di settimane con le palle al sole, solo che le Forze dell’Ordine non sono d’accordo.
In viale Corsica una volante con due ragazzini di leva mi riconosce e comincia a spararmi addosso.
Io rispondo al fuoco, e riesco a malapena a mettere Consuelo e Maxim su un taxi. Non mi prendono per un pelo.
Inizio la vita da latitante, ma il grano è poco e non posso nemmeno tornare dai miei, che oramai se ne stanno rintanati chissà dove.
Così decido che è ora di mettersi in affari seri.
Fu allora che nacque la Batteria o, come la chiamavano sui giornali, la “Banda Vallanzasca”:
– Antonio Colìa, in arte Pinella.
Capace di guidare a rotta di collo qualunque cosa avesse le ruote.
– Mario Carluccio, il mio braccio destro, l’uomo più coraggioso che mi sia mai capitato di conoscere.
– Rossano Cochis, ex paracadutista, detto Mandingo. L’uomo-mitra più strepitoso che abbia mai visto. Con quell’aggeggio spadroneggiava…
Correva incontro a chi gli sbarrava la strada. Se ne sfotteva che potessero essere in superiorità numerica. Da ex parà si buttava all’attacco.
– Vito Pesce e Claudio gatti, imbranati, fuori di melone e con una passione eccessiva per eroina e cocaina. Ma, per me, come fratelli.
– L’Angelina, figlia di un trapezista e donna di Vito. Portava una svastica tatuata sulla schiena e quanto a coglioni dava dei punti a tanti cazzuti maschietti.
In quell’anno, con un arsenale di 150 pezzi tra pistole, fucili, mitragliatori e bombe ci siamo fatti settanta rapine e quattro sequestri.
Beninteso, sequestri sì, ma “alla Vallanzasca”.
Pretesi subito di differenziarmi: certo non avrei fatto l’aguzzino.
I sequestrati dovevano godere di ogni comfort: bagno, letto, cibo e possibilmente il superfluo. Mica eravamo in Barbagia, diamine.
E poi pagavano pur sempre loro.
Le segnalazioni sugli obiettivi le ebbi direttamente a un impiegato dell’Intendenza di Finanza di Milano. Mi spacciai per un funzionario delle Fiamme Gialle.
Preannunciato da una telefonata del mio ‘comandante’, mi presentai per un fantomatico ‘sorteggio per verifiche patrimoniali’.
Però, una volta arrivato da lui mi limitai a dirgli: ‘Lei, che da una vita ha a che fare con i patrimoni di tutti i milanesi, se fosse al mio posto, invece di ricorrere al sorteggio a chi farebbe le pulci?’.
Il tipo non si fece ripetere due volte la domanda. E sai quale nome fece per primo?
Quello di Nino Trapani. Una moglie e due figlie, proprietario di alcuni stabili, amministratore delegato della Helen Curtis.
Scegliemmo la primogenita, Emanuela.
Era bellissima, intelligente, spiritosa e, con quella timidezza tipica delle ragazzine della sua età, sensuale e femmina come poche.
Nei quarantuno giorni della sua prigionia non le feci mancare nulla: pasteggiava a champagne, telefonava all’amica del cuore. Riceveva regali.
E festeggiammo il Natale.
Proprio come a casa sua: sotto un grande albero carico di lucine e palle colorate. Gliel’avevo rubato dall’androne di un palazzo vicino.
Insomma, con lei stavo bene.
Sul fatto che tra noi ci fosse una storia i giornali ci hanno ricamato su parecchio… “Il bandito dagli occhi di ghiaccio e la giovane ereditiera”, titolava il Corriere.
Il vero problema non era lei, era Nino, il padre.
La prima richiesta che gli feci fu esorbitante: trenta miliardi.
E lui sai che mi rispose? «Guaglio’, perché non me lo dite chiaro: io vi cedo tutte le mie attività, Helen Curtis compresa, così ve la vedete voi, coi debiti che ho e con i rappresentanti sindacali…»
Con un napoletano così le trattative per un sequestro avrebbero finito per assomigliare a quelle del mercato di Forcella.
Ci accordammo per quattro. Emanuela la riaccompagnai a casa personalmente e la consegnai alla madre.
Vedi, questo è il buono di quel periodo. Ma ci fu anche il marcio.
Sì, perché per i giornali il “Bel René” era anche “Un feroce assassino”. Come dargli torto…

4. Mortacci…

Vedi, quelli erano anni mica da ridere…
Tanto per cominciare, quell’anno, l’attuale presidente del Consiglio si fregava le mani. Il 25 giugno la Corte Costituzionale sanciva la legittimità delle emissioni radiotelevisive locali.
Nasceva la TV privata, insomma. Per contrastare il monopolio Rai,
che copriva le gambe alle ballerine e cacciava Dario Fo per lesa maestà presidenziale.
Bella trovata. Di lì a cinque anni il Cavaliere aveva già fatto man bassa e il paese doveva prendersi in quel posto un altro monopolio.
Ma questo è il meno, il contorno…
La vita vera stava nelle piazze, dove il PCI diventava sempre più potente mentre mezza Europa si cacava sotto.
A Luglio il cancelliere tedesco Schmidt fa sapere che Francia, Inghilterra e Germania non concedono prestiti se i rossi vanno al governo.
L’ennesimo governo Andreotti rassicura, e garantisce anche Craxi, che si frega le mani in attesa della zampata.
I comunisti, per canto loro, cominciano a sparare.
A settembre viene fatto fuori il vicequestore di Biella dalle BR.
Un mese prima Graziano Mesina scappa dal carcere di Lecce aiutato dai Nap, i Nuclei Armati Proletari.
Crimine e politica vanno a braccetto. Le strade e le piazze diventano posti pericolosi. Ci sono posti di blocco ovunque.
E questo ci rovina gli affari.
Così, tra un colpo e l’altro, decido che dobbiamo dare una dimostrazione di forza, far capire ai pulotti che non ci pieghiamo.
M’invento la beffa del secolo: i posti di blocco al contrario.
Aspettavamo le volanti, facevamo scendere gli sbirri, li disarmavamo. E poi li spedivamo a casa a calci in culo.
La sera del 30 di ottobre, però, qualcosa va storto.
Vito e Claudio, fatti marci di coca, si mettono a sparare alla prima jeep della polizia che incontrano.
Io non ce li avevo mai voluti quei due negli agguati.
Combinavano solo casini.
E loro, per dimostrarmi che erano alla mia altezza, si erano messi a fare i pistoleri solitari…
Dicevo, scaricano due caricatori sugli sbirri, questi li rincorrono e stanno per fargli il culo quando miracolosamente gli imbecilli trovano un maggiolone, tagliano la corda.
E restano senza benzina.
È a quel punto che il dottor Premoli ha la sfiga d’incrociarli in via Meda. Lo fermano, gli intimano di scendere.
Alla vista degli sputafuoco il medico ingrana la retro e tenta di darsi.
Viene falciato da una sola, inutile, raffica.
A quel punto Milano scotta, li hanno visti in faccia e ci metteranno uno sputo a far due più due.
Io salgo in macchina la notte stessa, direzione Lago d’Iseo.
Là avevamo un rifugio, una villa di un imprenditore compiacente.
Mi tiro a lucido, giacca e cravatta per non dare nell’occhio e alle due sono già in autostrada.
Allo svincolo una pattuglia mi ferma per un controllo.
Ripeto, in quegl’anni non c’era niente di strano se dei poliziotti con la mitraglietta d’ordinanza ti bussavano al finestrino per chiederti i documenti.
Gli passo patente e libretto, quello con un occhio li guarda, e con la mano slaccia la fondina.
A quel punto ho agito d’istinto.
Mi ricordo solo che mi girava la testa, ho visto tutto rosso e l’attimo dopo gli avevo sparato in faccia.

BUM!

Mi butto fuori dall’auto, e prendo alle gambe gli altri due, che da dietro l’autopattuglia tiravano con le Beretta bifilari.
Con un proiettile nelle costole sgommo direzione Roma.

5. Fine dei giochi.

Roma. Caput Mundi. Per me, più che altro cap’u cazz!
Arrivo e un segaossa da film di serie B (hai presente il dottore ubriaco che per tirarti via una pallottola ti disinfetta col whiskey, e prima di versarlo sulla ferita si fa un cicchetto?) mi massacra il fianco dove mi avevano ficcato una palla calibro 12.
Passa un paio di giorni in cui mi strafaccio di bucatini e morfina e viene a trovarmi questo avvocato.
Fascista, come l’amico da cui stavo nascosto. Comincia a magnificare le mie doti di combattente, per poi farmi sapere che la patria aveva bisogno di ragazzi come me.
Avrei dovuto semplicemente essere il braccio violento della “Strategia della Tensione”, qualche attentato qua e là, un po’ di sangue innocente versato.
Insomma avrei dovuto, parole sue, “dare la spallata definitiva che avrebbe scardinato le istituzioni”. In compenso avrei ottenuto quanti soldi volevo.
Io gli dico che ho bisogno di tempo per pensarci. Poi lo chiamo e lo invito, diciamo così, a trovarsi qualcun altro che faccia quelle porcate, perché Renato Vallanzasca è un bandito, non un boia travestito da politicante.
Mentre stiamo parlando tiro fuori tutto quello che i suoi amici neri vogliono combinare.
Lo registro.
E glielo faccio sapere.
Ancora oggi, l’idea di tenerlo per le palle mi piace assai. Anche più di allora, visto che quello che per me era un illustre sconosciuto non lo è certo più… Anche se da tempo ha indossato i panni del francescano.
Anni dopo, a San Vittore, finisco in cella con Concutelli, il fondatore di Ordine Nuovo. Beh, allora più neri di lui non ce n’erano.
Era uno con le palle, non aveva paura di nessuno.
E sai che mi racconta sull’avvocato?
“È un boia dei Servizi” dice “amico di quei bastardi di Delle Chiaie e Nardi, di quelli che fanno comunella con la sbirraglia più infame”.
Allora l’Italia era questa roba qui, anche se a scuola non ve l’insegnano, le stragi fasciste erano stragi di Stato.

Ad ogni modo, me ne sto tranquillo a Roma da qualche mese, nell’appartamento di Volusia, quando il giorno di S.Valentino (febbraio mi ha sempre portato sfiga…) suonano alla porta.
Io avevo ancora le stampelle. Cominciavo appena a riprendermi.
Apro e mi trovo davanti un colonnello dei carabinieri.
Cornacchia, si chiamava.
Da un infame avevano saputo che in quell’appartamento c’era qualcuno importante.
Un pesce grosso, insomma.
Solo che non sapevano chi era.
Arrivano armi in pugno e si trovano me. Zoppo e colla barba sfatta.
Cornacchia ci pensa sopra e mi fa: “Non è che niente niente sei quel Vallanzasca che sta cacando il cazzo a mezza Italia?”
E io, mestamente, annuisco.
Fine dei giochi. E sto qui dentro dal ’77.

– E adesso che ci fai con questa roba, ragazzo?
– Il cinema.
– Una roba tipo i film di Al Pacino? Uno Scarface all’italiana?
– Sì. Ma storico.
– Guarda che la storia l’hanno fatta i pezzi grossi…
Quei politicanti come quell’avvocato fascista che voleva farmi mettere le bombe.
E i ragazzi, quelli nelle piazze. E nelle fabbriche.
Queste cose che ti ho raccontato non interessano più a nessuno. Un tempo i pennivendoli ci facevano i soldi, ma adesso…
E poi è solo la storia di uno che non voleva abbassare la cresta, e in tanti anni non ci sono ancora riusciti a fargliela abbassare…

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